sabato 27 aprile 2013

Speciale Tribeca: Intervista a Christina Voros

Pubblichiamo la traduzione dell'intervista di Niki Cruz a Christina Voros, uscita sul sito The Inquisitr in occasione del Tribeca Film Festival.



James Franco presenta al Tribeca Film Festival The Director, per la regia della sua storica collaboratrice Christina Voros. Al suo secondo documentario, la Voros fa luce su una misteriosa figura a capo di un potente impero. E' opinione generale che una donna alla direzione di una maison così storica come Gucci debba darsi molte arie, ma i fortunati che riusciranno a vedere questo ritratto del direttore creativo di Gucci Frida Giannini, saranno positivamente sorpresi nello scoprire che questo documentario annulla quella credenza. In un'unitaria struttura in tre atti, la Voros ritrae il suo soggetto in una luce naturale, senza però esimersi dall'indagare tutto quello che bisogna fare per guidare un brand leggendario. Mostrando i dietro le quinte delle patinate sfilate, fino alla (qualche volta esasperante) ricerca della borsa perfetta per quella collezione, The Director rivela che ogni dettaglio apparentemente superficiale ha uno scopo più importante nella vita di Frida Giannini.

L'elemento fondamentale che emerge durante i tre atti è la collaborazione. Le decisioni in merito alle sfilate sono il risultato di un lavoro di gruppo, così come lo è il film stesso. Parlando con Niki Cruz di The Inquisitr, Christina Voros fa emergere l'idea della collaborazione come guida di ogni area della creatività. La storia non finisce quando scorrono i titoli di coda. Con cinque collaborazioni con Franco all'attivo, sembra solo l'inizio di una ben più grande relazione artistica.

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THE INQUISITR: E' la tua prima volta al Tribeca? 
CHRISTINA VOROS: Da regista lo è. Ma ero qui anche tre anni fa con James [Franco] per un film che ho girato con lui chiamato Saturday Night. Era un documentario sul Saturday Night Live.

Collabori molto con James. Ci spieghi com’è iniziata?
Ho studiato alla NYU e lì ho incontrato un professore e mentore, il regista Jay Anania. James ha seguito lo stesso corso qualche anno dopo di me e stava cercando un direttore della fotografia con cui collaborare. Jay era il suo insegnante e ci ha presentati. Ricevetti una telefonata dal socio produttore di Franco e non conoscevo molto bene il suo lavoro allora. Era proprio il momento in cui le cose stavano incominciando ad esplodere per lui. Ci siamo incontrati da registi e collaboratori. Ho lavorato a cinque cortometraggi diretti da lui e questo è il nostro terzo documentario. Poi abbiamo girato quattro lungometraggi. Il più recente è As I Lay Dying, che sarà presentato a Cannes. E' divertente lavorare con qualcuno che fa così tante cose come lui, perché ti tiene davvero impegnata.

E com'è stata l'evoluzione a partnership?
Davvero grandiosa. Abbiamo fatto due documentari, entrambi casualmente usciti quest'anno, anche se realizzati a un anno di distanza. Entrambi sono stati idee di James, che poi ne ha parlato a me. Avevo già lavorato con la moda. Il mio primo primo film è stato un corto sulle mie prozie. Erano stiliste. Avevano un negozio di couture sulla Lexington Avenue negli anni '60. Grazie a questo background e alla mia provenienza da una famiglia con radici nel mondo della moda e avendo una filosofia simile alla sua in merito alla realizzazione di un documentario, James mi ha dato completa libertà. E' stata un'evoluzione nel senso che ci sono diverse sfaccettature nella nostra relazione lavorativa. Sono ancora la sua direttrice della fotografia e spero di continuare a lavorare con lui.
 
Vedi te stessa più come direttrice della fotografia o come regista?
Eì buffo, il mio biglietto da visita dice "regista/direttrice della fotografia". Amo entrambe le cose. Dopo aver fatto due documentari in tre mesi è invitante andare su un set con una sceneggiatura già pronta, una lista delle scene da girare, e qualcun altro che prende delle decisioni. Io faccio tutte e due le cose. Noto che quando giro per troppo tempo senza dirigere qualcuno, inizio ad avere delle reazioni riguardo al progetto che normalmente appartengono a un regista. Credo sia un equilibrio interessante, perché pensare come un regista aiuta ad essere un bravo direttore della fotografia. Certo devi anche saper spegnere quegli impulsi, ma se sei fortunato, può capitarti di lavorare con registi che sono anche collaboratori. Io sono stata abbastanza fortunata da avere una troupe incredibile per questo film. Si fa ricerca tutti insieme. E' come andare nei boschi senza una mappa, ma poi qualcuno sa leggere le stelle e in qualche modo si trova la strada insieme.
 
Quando hai parlato con Frida, come ha reagito all'idea di un documentario sul suo mondo?
Era un tantino reticente. Ma era aperta alla possibilità. E' stato James a parlargliene, sono buoni amici. Gucci ha supportato finanziariamente i progetti di James, è davvero un'amicizia genuina.
 
Quindi James casualmente è entrato nel film? Non era già in contratto che lui ne avrebbe fatto parte?
No, voglio dire che la parte con James è stata una delle prime cose che abbiamo girato perché lui stava facendo un servizio fotografico a Cinecittà a Roma e Frida non poteva esserci. Ricordo che in fase di montaggio ho pensato a lungo, "Ma va bene se lo inseriamo nel film?", ma poi Frida ha iniziato a parlare dell'influenza storica del cinema sulla moda e della moda sul cinema, di Cinecittà e nelle campagne pubblicitarie di Gucci a livello mondiale si parla esattamente di quello. Ho pensato, in un certo qual modo questo photoshoot è del tutto attinente ed è una versione moderna di ciò di cui parlava Frida al passato. Esiste una versione in cui James non c'è affatto [ride] ma io segretamente pensavo, "Ma è Cinecittà!" E' una bella introduzione alle scene che vengono dopo, perché il film è un'esplorazione di aspetti che diamo per scontati quando guardiamo i servizi fotografici di moda sui giornali.
 
La struttura in tre atti è molto interessante. Ci hai pensato prima di iniziare a girare?
No, è stato il film a richiederla. Mi sono resa conto di alcuni elementi mentre montavo il film. Esiste una cronologia definita e ho pensato "ok, potremmo fare degli spostamenti e nessuno noterà nulla, ma non per un purista e anche se questo film non è solo per un pubblico che segue la moda, le gente che conosce questa industria lo guarderà con occhio più critico". Molto di quello che fa Frida ha a che fare con un'evoluzione, stagione dopo stagione. Ho pensato fosse importante non modificare l'ordine cronologico, piuttosto che andare avanti e indietro. Quella borsa ha un significato, quella rouche ha un significato, quella modella ha un significato e quindi ho rivissuto gli eventi del film da un diverso punto di vista.

Hai imparato qualcosa da Frida?
E' un modello straordinario per me nel modo in cui riesce a imporsi in una posizione di potere in un’azienda, avendo un ruolo creativo ed essendo parte di una collaborazione, ma dovendo anche prendere decisioni importanti. Da regista la stimo molto. Una delle cose che apprezzo di Frida è che lei non ha mai voluto avere un suo brand. Ha sempre voluto disegnare per una grande azienda. Credo sia insolito. Quando si pensa alla moda e agli stilisti, vengono in mente grandi personalità che magari lavorano per un brand già famoso di suo e poi hanno un proprio brand. A Frida questo non interessa, non le è mai interessato. Questo atteggiamento verso il lavoro mi ha fatto pensare al mio approccio. Penso sia simile in qualche modo. Con i film è come dare alla luce un figlio. Diventa autonomo, ma è una parte di te, eppure è talmente tanto più grande di te. In parte perché ci sono molte persone coinvolte. Mi è capitato di lavorare con grandi artisti per questo film, dagli operatori ai montatori ai musicisti, è stata un'esperienza che mi ha reso davvero più umile. Quello che sono riuscita a fare, anche se sono la regista, l'ho fatto perché sono stata abbastanza brava e fortunata da avere a bordo tutte queste persone di talento e abbiamo lavorato insieme. 

traduzione di Chiara Fasano

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